L’Uomo e la Terra: il Van Gogh “che vien dalla campagna”

Provenza, 1888. Immaginate un uomo rossiccio, dall’aria un po’ trasandata e stramba, seduto davanti a cavalletto e tela, nel bel mezzo di un campo, che dipinge con tratti decisi e svelti la radura alberata di fronte a lui. Ecco, questo è il Vincent Van Gogh con cui ci si trova a confronto nella mostra “L’Uomo e la Terra”, esposta a Palazzo Reale a Milano e prolungata fino al 15 marzo.

Dimenticatevi, per il momento, di capolavori come “La Notte Stellata”, “La Camera”, nonché la borghese atmosfera parigina delle sue opere più note, perché la mostra è capace di invadere i sensi dei presenti con un valzer di profumi di lillà e patate, danzanti assieme alle sfumature dorate della campagna di un’Arles ottocentesca, con il sottofondo delle tetre note della depressione e dello squilibrio che affliggevano l’artista.

La mostra si apre con un pezzo da novanta, mettendo in risalto, tramite giochi di luce e ombra, l’unico autoritratto dell’esposizione:

 Non a caso, questo è uno dei lavori più variopinti e memorabili. Già da subito, quindi, il messaggio riecheggia limpido e chiaro: da questo dipinto inizia il viaggio che, sulle tappe di 47 opere provenienti dal Kroller-Müller Museum di Otterlo, vedrà il visitatore ripercorrere quello che fu un periodo di grande ispirazione e fragilità dell’artista olandese, rimarcando ed analizzando il viscerale ed indissolubile legame tra l’uomo e la ruralità.

Entrati, quindi, a piè pari nella retrospettiva ottocentesca targata Van Gogh, vi troverete faccia a faccia con stremati coltivatori di barbabietole, placidi allevatori, pastori e amici d’infanzia del pittore, la cui rappresentazione si distingue per le disarmanti genuinità e sincerità, espresse con quelle nervose pennellate che da sempre costituiscono il tratto distintivo dell’artista. Degne di nota sono poi le nature morte, tramite cui l’arista rende partecipi i presenti in sala di quella che fu la sua vita di tutti i giorni, sbalordendo anche con un semplice cesto di patate.

Personalmente, ho trovato deliziosa la “Natura morta con tavolo da disegno, pipa, cipolle e cera”.

Oltre ad essere stupendamente composta da una variegatissima tavolozza di colori, quest’opera mi ha affascinato per il suo potere di saper catapultare chi l’ammira proprio nello studio di Van Gogh, dietro a quel tavolo disordinato che riassume l’essenziale per il pittore. E’ un po’ come essere ospiti di Van Gogh stesso: i brividi.

Così, dopo aver attraversato rigogliose foreste, campi di grano e sconfinate praterie, gustando anche un intermezzo di 16 delle lettere scritte dall’artista al fratello Théo (imperdibili, soprattutto perché da esse traspare un Van Gogh molto più profondo ed affascinante rispetto all’immaginario collettivo), la mostra termina con la stessa magnificenza della sua apertura, sfoggiando il tanto allucinato quanto strabiliante “Paesaggio con covoni e luna che sorge”, opera in cui compaiono i primi sintomi della malattia che, pochi anni più tardi, avrebbe portato l’artista all’esasperazione suicida.

Umanità spoglia di ogni superficialità, paesaggi come mosaici di colori ed odori, quotidianità senza alcun filtro e passione e follia che intrecciano le loro trame: nella frenetica attesa per l’Expo, Milano è avvolta in un panteismo che solo un genio come Van Gogh sarebbe stato in grado di evocare. E che, oggi ne sono più convinto che mai, si sarebbe meritato molto di più di ciò che ha ricevuto.

Michele

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